IL PATRIMONIO DEGLI ENTI ECCLESIASTICI (CATTOLICI) E IL TERZO SETTORE

Interrogativi e prospettive multilivello a margine di una recente Giornata di studi. L’articolo di Alessandro Perego, ricercatore e docente incaricato di diritto ecclesiastico nell’Università degli Studi di Padova e avvocato.

Nei titoli degli interventi e nelle parole dei relatori di una recente Giornata di studi dedicata al patrimonio degli enti ecclesiastici i riferimenti al «Terzo settore» sono stati a tal punto ricorrenti da porre il tema della Riforma al centro degli interessi e del dibattito. Tanto agli organizzatori quanto ai partecipanti è apparso chiaro che una riflessione sul presente e sul futuro della gestione del patrimonio degli enti ecclesiastici cattolici in Italia intercetta inevitabilmente e in modo massiccio le norme sul “nuovo” Terzo settore, ponendo interrogativi di urgente attualità pratica e aprendo prospettive inedite che occorre saper attentamente ponderare.

Tali interrogativi e prospettive si stratificano, per così dire, su quattro differenti livelli, concatenati l’uno agli altri e che devono essere affrontati necessariamente in modo consequenziale.

Primo livello: convenienza/opportunità dell’accesso al Terzo settore

Il primo livello è quello della convenienza/opportunità per gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti di accedere o non accedere al Terzo settore: quali costi e quali benefici vi sono per un ente ecclesiastico che decida di collocare una propria attività d’interesse generale e le risorse patrimoniali ad essa destinate nello spettro giuridico del Terzo settore?

Nel tentare di rispondere a questo primo quesito la mente corre immediatamente alla cosiddetta leva fiscale, cioè a quelle disposizioni del Codice del Terzo settore e del decreto n. 112 del 2017 sull’impresa sociale che consentono (o meglio, dovrebbero consentire) all’ente ecclesiastico un risparmio sul fronte dei «costi tributari».

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