EDUCAZIONE CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE (E NON SOLO)

Mentre si inaspriscono le pene contro la criminalità, il dibattito pubblico si concentra sul ruolo prioritario dell’educazione. Formare i giovani su sessualità, diversità e contrasto agli stereotipi per eradicare la cultura della violenza.

di Flavia Belladonna, sul sito dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile

Far derivare delle conseguenze alle azioni irresponsabili è un passaggio certamente necessario, ma è una misura che interviene a posteriori e rappresenta solo uno dei tanti tasselli che compongono il quadro complessivo. Nella gestione di uno sbaglio, un genitore con un figlio o uno Stato con i propri cittadini dovrebbe adottare un approccio integrato che tenga conto di tutti gli elementi: regole chiare da rispettare (leggi e misure), educazione (prevenzione), conseguenze (pene), modalità per rimediare (reinserimento), comprensione della causa profonda per far sì che non si ripeta (politiche per curare il male alla radice). In questo processo, insieme alle istituzioni, tutti gli attori coinvolti nell’educazione giocano un ruolo chiave.

Educare alla non violenza è una sfida che riguarda tutta la società. Con le recenti cronache si sono riaccesi i riflettori sul malessere dei giovani nelle periferie, segnate da disagio economico, esclusione sociale, carenza di servizi e povertà educativa, che possono farci chiedere se le rivolte violente nelle banlieau francesi di quest’estate un giorno potranno non sembrarci più poi così lontane. Occorre dunque intervenire sulle radici del malessere prima che sia troppo tardi. Ma parallelamente alla realtà dei quartieri più disagiati, si assiste anche a comportamenti devianti nella quotidianità che interessano ogni fascia della popolazione, attraverso i social e non solo. La questione da approfondire, dunque, è come affrontare quello smarrimento generale nei valori e generare consapevolezza.

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Per educare i ragazzi alle relazioni non bastano gli insegnanti (poco formati) e nemmeno gli psicologi: serve coinvolgere tanti profili professionali, che conoscano il tema e come parlarne ai ragazzi. Smettendo di pensare che si possa prescindere dall’affrontare il rispetto nella sessualità. Intervista a Marina Calloni (Università Bicocca) su Vita.it

Professoressa, rispetto a quello che il ministro Valditara ha anticipato del piano “Educare alle relazioni”, la prima valutazione qual è?

Dovrei poter leggere nel dettaglio il piano proposta del Ministro per poter dare un giudizio più circostanziato. Il tema dell’educazione alle relazioni in realtà è già previsto dal Piano nazionale per l’educazione al rispetto, come espresso nelle Linee guida nazionali per l’attuazione del comma 16 della legge 107 del 2015 per la promozione dell’educazione alla parità tra i sessi e la prevenzione della violenza di genere. Era l’ottobre 2017, la ministra all’epoca era Valeria Fedeli. Quelle linee guida, messe a punto da un gruppo di esperti, erano molto chiare. Il punto dirimente è ora questo: capire cosa si intende quando si dice “educare alle relazioni”. Chi lo fa, con quali competenze e contenuti.

Che dire del fatto che siano ore extracurricolari?

Significa che probabilmente frequenteranno questi corsi le studentesse e gli studenti già sensibilizzati, per loro impegno o per interessamento familiare. Vista la volontarietà, ci potrebbe essere il pericolo che questi corsi possano essere frequentati perlopiù da ragazze, già sensibilizzate sul tema, mentre potrebbero essere disertati da studenti maschi, pensando che si tratti di “cose da donne”, mentre è  fondamentale che si possano rendere consapevoli del necessario contrasto contro ogni forma di sessismo, misoginia, discriminazione, così da opporsi ad atteggiamenti di possesso e controllo in relazioni che possono diventare tossiche anche in giovane età.

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L’economia comportamentale permette di inquadrare molto chiaramente le origini psicologiche della discriminazione e le risposte efficaci a ridurre la discriminazione di genere, sia ripensando l’implementazione e la valutazione delle politiche già esistenti che integrandole con interventi basati sui nudges o spinte gentili. Vediamo come, con Marina Della Giusta su AgenCULT

Le scienze sociali si sono occupate molto delle differenze di genere che si osservano nell’accesso e nell’uso delle risorse (dalla salute fisica e mentale all’istruzione, dall’accesso a risorse materiali e immateriali, al lavoro retribuito e quello di cura, all’uso del tempo), ascrivendole a fattori sia biologici che sociali che, mano a mano che gli studi sulla genetica hanno prodotto la consapevolezza della impossibilità di utilizzare distinzioni così nette si sono via via raccolti in fattori individuali (come le caratteristiche e preferenze) e fattori struttural-ambientali (come le norme sociali).

La scienza comportamentale è estremamente importante per comprendere il genere e la diversità. Mentre molte ricerche e politiche sono state dirette a eliminare la discriminazione palese e sistemica attraverso interventi normativi di vario tipo e promuovere l’istruzione e la raccolta di informazioni (come le raccolte di dati sensibili al genere promosse dai processi di bilancio di genere, come quelli sostenuti dall’OCSE e dall’EIGE), la ricerca comportamentale ha dimostrato che una delle ragioni per cui la discriminazione non è facilmente correggibile, nonostante tutti gli sforzi diretti a questo, è legata al pregiudizio implicito.

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