ECONOMIA SOCIALE: COME RIPENSARE IL RAPPORTO TRA CAPITALE E LAVORO

Idee e spunti per ripensare le logiche con cui oggi il Terzo Settore, soprattutto negli ambiti legati al welfare, si rapporta con il capitale. Senza una nuova cultura il rischio è di mettere in crisi ambiti di intervento finora ritenuti immuni dalle logiche che interessano l’economia tradizionale. Un articolo di Francesco Abbà e Flaviano Zandonai su Percorsi di Secondo Welfare 

Il rapporto tra capitale e lavoro torna periodicamente al centro del dibattito ma l’analisi va sempre nella stessa direzione, ovvero evidenziare il dominio del primo sul secondo. Un vero e proprio sfruttamento per massimizzarne l’interesse secondo modalità sempre nuove, ad esempio attraverso l’utilizzo di piattaforme digitali che efficientano e scalano l’estrazione del valore.

In questo modo il capitale ne esce, inevitabilmente e giustamente, ridimensionato nella sua funzione di sviluppo, tanto che le istanze di advocacy ne reclamano una più equa redistribuzione ad esempio tassando i patrimoni, oppure incentivando i capitali a rientrare in un ambito di piena legalità rispetto a contesti come i cosiddetti paradisi fiscali che ne favoriscono l’accumulazione a condizioni particolarmente favorevoli.

Il capitale in ambito sociale

Tutto ciò si riverbera anche a livello di narrazione per cui qualsiasi riferimento al capitale è di per sé negativo, a maggior ragione se si considera che la sua principale modalità di incremento deriva da una finanza che ha sempre meno a che fare con “l’economia reale”. Il rischio, più che concreto, è che il capitale venga se non espulso quasi certamente svilito da parte di molte espressioni di economia alternativa a quella mainstream. Basti pensare che nel recente Piano d’azione europeo sull’economia sociale quest’ultima viene definita come un settore dove il capitale non prevale sulle persone, paventando in questo modo una sorta di trade off.

Così ridimensionato il capitale in campo sociale viene impiegato soprattutto per finanziare la gestione attingendo preferibilmente a risorse interne. Investimenti veri e propri da sostenere con apporti esterni rappresentano ancora oggi operazioni tendenzialmente straordinarie, legate a particolari fasi di sviluppo e quando magari non è più possibile attingere al proprio di capitale.

Nell’economia tradizionale dove il capitale è dominante, la strategia è diversa. Accanto a tentativi (limitati) di irregimentare il capitale, soprattutto finanziario, attraverso più stringenti norme di regolazione, si assiste, soprattutto in epoca recente, al tentativo di riorientarne la missione attraverso criteri di accumulazione e allocazione che enfatizzano elementi di sostenibilità ambientale, impatto sociale e qualità della governance (la famosa tassonomia ESG).

In sintesi, diversi tentativi e su vari fronti che però, almeno finora, sembrano aver generato risultati parziali, o perché scontano approcci di “integrità” rispetto all’utilizzo del capitale che impattano solo in alcune nicchie (come l’impact investing definito in senso stretto) oppure, all’opposto, derive opportunistiche di “washing” sempre più evidenti a causa di modelli di regolazione troppo blandi e ambivalenti rispetto a strumenti di rendicontazione e ruoli di controllo.

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