È MORTA UN’ALTRA RAGAZZA – EDITORIALE DI GIULIA BLASI

È morta un’altra ragazza. Questa volta si chiamava Giulia Cecchettin. Era una ragazza normale, ed è morta come muoiono tante ragazze normali, ammazzata da un “bravo ragazzo”, il suo ex fidanzato. Solo che questa volta la ragazza ha una sorella che non molla, che non si limita a piangerla in privato. Elena Cecchettin sta sui nostri schermi con la sua faccia e la sua composta lucidità e un messaggio: bruciate tutto.

E ora tocca essere all’altezza, perché la sorellanza è anche questo. Giulia era nostra sorella. Elena è nostra sorella. Dobbiamo bruciare tutto.

[…] Giulia Cecchettin non è morta per caso. È morta perché un uomo l’ha uccisa, ed è morta perché come società non vogliamo – non che non sappiamo: sapremmo come farlo, solo che non lo facciamo – mettere in discussione il diritto maschile alla proprietà della donna. Non vogliamo liberarci dai ruoli di genere, e meno che mai chiedere agli uomini di mettersi in discussione, di rinunciare alla loro centralità, al privilegio che fa sì che anche quando ci ammazzano ci sia qualcuno che si commuove per loro, poverini, quanto soffrono. Se ci avessimo pensato prima, se avessimo iniziato prima – anche solo cinque o sei anni fa, quando vittima e assassino erano alle superiori: è già tardi, ma forse sarebbe servito, forse avrebbe aiutato – lei sarebbe viva. Se iniziamo adesso, se cominciamo a parlare di rispetto, libertà e autodeterminazione dei corpi e delle persone fino dalla scuola dell’infanzia, con le parole giuste, i toni giusti, forse non avremo più così bisogno di parlare della vita delle donne in termini di salvezza e sopravvivenza da uomini che vogliono arrogarsi il diritto di decidere per loro in tutto e per tutto, fino ad accoltellarle.

Passata la commozione, invece, penseremo ad altro. Non è la prima donna o la prima ragazza che muore: la violenza, la sofferenza, l’accettazione di ogni piccola e grande angheria con animo forte e resistente sembrano essere l’ossatura dell’esperienza femminile. Ogni tanto qualcuna ci rimette la vita, poverina, andiamo avanti. Fino alla prossima, quando il ciclo ricomincia: orrore, indignazione, grida forcaiole, richiesta di pene severissime, povero angelo, gente che si frega dai social le foto della morta per ripostarle sui propri, ma in termini pratici cosa si fa? Sempre quella cosa lì che dicevo prima.

No, l’inasprimento delle pene sempre invocato dalle destre e dalla gente a cui non interessa se le donne muoiono è perfettamente inutile. Nessun inasprimento delle pene ha mai portato a una diminuzione di un reato, meno che mai quando quel reato ha una natura sistemica, culturale, è legato in maniera profonda all’identità di chi lo compie. Della violenza contro le donne, al contrario, preferiamo parlare come di episodi isolati: è più comodo, non chiama in causa nessuno, non richiede azioni faticose, autocoscienza, rinuncia ai propri privilegi. Non vorremo mica chiedere agli uomini di smettere di fare battute sessiste, vero? O di rinunciare a fare i gradassi con le colleghe, o fra maschi? O anche solo di non mettere in piedi convegni, panel, festival senza donne, o in cui le donne fanno solo le ancelle. E quella sarebbe la parte facile, figuriamoci se vogliamo metterci a ridiscutere un assetto sociale fondato sullo sfruttamento del lavoro non pagato o sottopagato di intere sottoclassi di persone, e che quindi richiede la loro sottomissione.

[…] La domanda è semplice: vogliamo veramente che le donne smettano di morire per mano degli uomini? Più in generale: vogliamo che gli uomini smettano di ammazzare, picchiare, umiliare le donne, ma anche di ammazzarsi a vicenda? Vogliamo risolvere il problema della violenza maschile, o almeno iniziare a risolverlo? Allora ci sono da fare le cose che ho detto. Autocoscienza maschile su percorsi autonomi guidati dalla teoria femminista, niente maternage, arrangiatevi ché siete tutti alfabetizzati ed è solo la volontà, che manca. Educazione nelle scuole di ogni ordine e grado. Interventi fermi e senza appello quando il sessismo arriva da rappresentanti delle istituzioni. Norme che lavorino in senso preventivo, e che definiscano con precisione i reati. Finanziamento ai centri antiviolenza. Sono cose pratiche, cose da fare, non cose da dire. Della contrizione, del “mi vergogno di essere uomo”, delle frasi di circostanza non ce ne facciamo un bel niente. Un problema sociale si affronta come società, altrimenti ognuno fa da sé. E noi continueremo a soffrire, a sacrificarci, a subire umiliazioni e angherie, e a volte – troppo spesso – a morire.

L’editoriale di Giulia Blasi