DIRITTO ALLA SALUTE, DISPARITÀ E DISCRIMINAZIONI DI GENERE IN AMBITO SANITARIO 

È vero che l’aspettativa di vita tra uomini e donne è così diversa? A quali condizioni ciò si verifica? Vivere più a lungo corrisponde necessariamente a uno stato di salute migliore? E che cosa intendiamo quando parliamo di uomini e di donne? Le questioni in ballo costringono a fare i conti con la complessità che caratterizza l’intersezione tra fattori biologici e fattori sociali, culturali ed economici. La salute si produce nell’intreccio tra queste dimensioni e, per quanto essa rappresenti un diritto umano costituzionalmente sancito e riconosciuto come fondamentale a livello internazionale, spesso si traduce in un privilegio che discrimina le fasce della popolazione più marginalizzate.

Alla necessità di un dibattito anche italiano su questi temi ha risposto Alessandra Vescio, autrice del saggio “La salute è un diritto di genere”. Il volume è dedicato alle disparità incontrate da donne, persone AFAB (Assigned Female At Birth) e appartenenti alla comunità LGBTQIA+ nel momento in cui si ammalano, entrano a contatto con il mondo medico-sanitario, intraprendono (o cercano di intraprendere) un percorso di cura.

La sistematica svalutazione del dolore delle donne – sminuito, normalizzato, messo a tacere – affonda le proprie radici in un sostrato biologico (non sufficientemente conosciuto a causa dell’androcentrismo che permea anche l’ambito medico) e culturale (che vuole le donne vulnerabili e lamentose, gli uomini stoici e restii a chiedere aiuto). L’esperienza del dolore, condannata dall’assenza di “prove oggettive” che possano dimostrarne la sussistenza, è sottovalutata al punto che l’essere accusata di fingere o di esagerare è “una storia che praticamente ogni donna o persona socializzata come tale che manifesta dolore rischia di provare sulla sua pelle almeno una volta nella vita”.

Il ritardo diagnostico che si registra su molte patologie invisibili (o meglio, invisibilizzate, come l’endometriosi, la vulvodinia e la fibromialgia) è storicamente legato a un preconcetto che descrive le donne come capaci (quando non addirittura destinate) a sopportare il dolore, ma anche “troppo emotive”, capricciose, manipolatrici e irrazionali. L’autrice rintraccia nella cosiddetta “isteria” l’origine di una lunga serie di discorsi e di pratiche atti a delegittimare le donne, diventati nel tempo veri e propri dispositivi di controllo per coloro le quali mostrassero comportamenti incomprensibili, ingestibili o più semplicemente difformi dalle aspettative sociali loro riservate.

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