AFGHANISTAN, LA FOLLIA DI FARE LA GUERRA PER COSTRUIRE LA PACE

Siamo di fronte alle triste conclusione non solo degli ultimi vent’anni di guerra in Afghanistan, ma di un peacekeeping armato che giustifica esclusivamente guerre neocoloniali durate anche 50 anni. Quella di Kabul è una tragedia annunciata.
Nell’articolo di Vita, Anna Detheridge invita a rileggere il libro di Gastone Breccia “Missione Fallita: la sconfitta dell’Occidente in Afghanistan (Il Mulino 2019)”.

A metà dei lontanissimi anni 70 ho avuto la fortuna di recarmi in Afghanistan. Scendendo dall’aereo all’aeroporto di Kabul, la prima cosa che ho visto è stato un camion con una grande scritta ad arcobaleno sul fianco, “FIORUCCI”, che stava caricando sull’aereo camicette ricamate a mano, cinture e altri accessori da vendere alle ragazze come me nel negozio cult di Corso Vittorio Emanuele a Milano. Durante quella visita ho conosciuto diverse donne afghane, mogli di ministri dell’epoca, una delle quali era direttrice del Kabul Times, giornale in lingua inglese. L’alta borghesia afghana di allora era impegnata a barcamenarsi tra le opposte geopolitiche degli Stati Uniti al sud del Paese, e l’Unione Sovietica impegnata a costruire le strade verso nord. Un Paese in bilico che da allora ha avuto mille traversie ma mai un momento di pace. La triste conclusione non solo degli ultimi vent’anni di guerra in Afghanistan, ma di un peacekeeping armato che giustifica esclusivamente guerre neocoloniali durate 50 anni, era una tragedia annunciata di cui dà conto il bel libro di Gastone Breccia Missione Fallita: la sconfitta dell’Occidente in Afghanistan (Il Mulino 2019).

Non sono corrispondente di guerra, tanto meno un’esperta militare, ma credo che le ambizioni non soltanto degli Stati Uniti ma anche dell’Europa e di molti altri Stati nel mantenere l’ordine mondiale attraverso la guerra e la cosiddetta COIN ossia le politiche di counterinsurgency, piccole guerre contro il terrorismo, abbiano contribuito in realtà ad amplificare quei dissensi interni. Gli interventi di peacekeeping imposti con la forza hanno distrutto proprio quelle culture che – ognuno a modo suo – costituivano un crogiuolo di civiltà con modalità di convivenza diverse e anche una buona misura di prosperità (penso alla Siria, al Libano, alla Bosnia), destabilizzati e desertificati, incattivendo e polarizzando le popolazioni.

Non si può tacere la insopportabile ipocrisia di società che vivono di fine distinguo sul politically correct a casa propria e che conducono guerre bombardando dall’alto le popolazioni per il bene dell’umanità. Questa immane tragedia durata mezzo secolo con un dispendio enorme di denaro e ancora di più di vite umane deve farci riflettere su cosa significa per noi oggi essere “occidentali”, su cosa intendiamo quando parliamo di valori e di identità. E che non mi si parli di salvare le donne dell’Afghanistan, le cui sorti non sono mai state al centro di alcun progetto politico, tanto meno oggi, palesemente abbandonate al loro destino.

“Facciamo la guerra per trovare la pace” era lo slogan fino a qualche anno fa, ma probabilmente oggi non si ha più il coraggio di pronunciarlo anche perché non è più vero da un pezzo. Nel momento in cui all’interno dei nostri stati neo liberal mettiamo in discussione l’univocità della nostra cultura rispetto alle minoranze e ci apriamo a una pluralità di modi di vivere, di pensare, di diversità, non possiamo più ignorare il costo di quella pace imposta e non condivisa in un Paese diverso dal nostro. Oggi, certo, esiste una generazione di donne che ha potuto studiare nel clima di pace armata e di occupazione del Paese, ma è vero anche che tutti i cittadini hanno vissuto sotto una cappa costante di violenza.

“Prima della violenza”, scrive Breccia, “è un concetto che sfugge alla maggior parte della popolazione”. Uno stato di guerra permanente che ha condizionato tre generazioni, “disarticolato la struttura sociale, messo in ginocchio l’economia e distorto la percezione della realtà”. Tantomeno la litigiosità, la guerra di tutti contro tutti può essere considerata una caratteristica insita nella cultura dei popoli, ma piuttosto l’esito di tante pressioni che fanno di un luogo il vaso di coccio alla mercè di potenze armate fino ai denti. Come disse un mullah, voi combattete con l’acciaio e gli aerei, noi con i sandali a piedi nudi.

L’articolo completo su Vita.it