AFFIDIAMO LE CHIAVI DELLA FINANZA ALLE DONNE E CAMBIEREMO IL MONDO

Se la condizione delle donne è riconosciuta come uno dei termometri principali dello stato di salute e di civiltà di un Paese, l’Italia ha ancora tanta strada da percorrere per risollevare la classifica stilata dal World Economic forum sulla partecipazione femminile alla vita economica, che ci vede al 104° posto su 146 Paesi vagliati, cioè parecchio dietro Malta, Brasile, Sierra Leone e Grecia. Questo mentre l’Europa sembra invece avere ben chiaro in mente quale miglioramento generale possa derivare dal coinvolgimento femminile nelle imprese: l’ultima direttiva Women on boards per l’equilibrio di genere nelle aziende quotate in Borsa, banche incluse, stabilisce che entro il 2026 le donne dovranno occupare il 40% dei posti di amministratore senza incarichi esecutivi e il 33% di tutti i posti di amministratore, confermando così un’attenzione ai livelli intermedi delle organizzazioni e non solamente al riequilibrio di genere nei massimi livelli dirigenziali, aspetto più visibile, che sta nel complesso migliorando in molti campi e nelle istituzioni.  

Certo, una disparità secolare, profonda e radicata non si supera in uno schiocco di dita, e il raggiungimento della parità economica, l’annullamento dell’odioso Gender Pay Gap, dovranno attendere ancora 169 anni – recentemente ce l’hanno detto persino gli spot della telefonia… -, ma le prove empiriche dimostrano che una decina di economie – soprattutto Paesi del Nord Europa – ha già colmato almeno l’80% dei propri divari di genere, mettendo così meglio a frutto il potenziale delle donne e della diversità (la sola compresenza tra donne e uomini, tra competenze, visioni e sensibilità differenti, è un fattore di crescita collettiva). 

Il problema è che le barriere all’ingresso e quelle interne sono ancora troppe

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