PATRIMONIO SENZA PADRI, BENI CULTURALI, BENI COMUNI. SGUARDI E PENSIERI DA UNA FINESTRA DI MATERA

Su roots§routes la riflessione di Emmanuele Curti, archeologo umbro e docente alla scuola di Specializzazione in beni archeologici dell’Università della Basilicata, esponente di ALba – Alleanza lavoro beni comuni ambiente – e attivo nell’ambito della progettazione su beni culturali, cultura digitale, aree interne, turismo di comunità.

Lo dico subito, ho seri problemi con la parola “patrimonio”: più volte ho ripreso in mano le linee di pensiero per scrivere queste riflessioni, e le intersezioni che scaturivano si scontravano ogni volta con il peso specifico della parola, che cela un DNA, un meme diremmo oggi, profondo, saldo e allo stesso tempo vacillante.
Patrimonio è espressione allo stesso tempo di eredità e di proprietà: un concetto fermo, meno dinamico del suo corrispettivo inglese, “heritage” – termine che traduce oggi il codice di riferimento internazionale – proprio perché legato fermamente a un idea di diritto romano che sul “latifondo” della memoria ha costruito un potere (e un sapere).

Non si nutre solo di “eredità” (concetto sempre statico ma che diventa fluido a secondo dei contenuti da travasare), ma dell’affermazione costante di un potere mascolino dello Stato.
Lo dico inoltre da maschio e padre (“patre”, quanto risuona…), e da cinquantenne formatosi in un ‘900 travalicante nel terzo millennio, lungo un periodo che mai come prima, nel pensiero occidentale, è stato scosso da profondi ripensamenti del sé.
Lo dico da (ex) archeologo, da persona che per decenni ha vissuto dentro “patrimoni” del sapere accademico, fuoriuscendone proprio perché la rigidità del “padre” sapere non ti concedeva di stare sulla linea di frattura, di conflitto, di visione “profetica” del futuro (uscendo dalla proprietà del sapere stesso).
Lo dico da persona che sente profondamente la crisi di uno Stato, in cui, i luoghi/monumenti (ai quali la parola “patrimonio” spesso ci riconduce), sono spesso presidi stanchi che nascondono la fragilità delle vere “proprietà” pubbliche, quelle del welfare e del sapere, che sullo scollamento Stato/società civile, sulla crisi del pensiero democratico, trovano le ragioni di un temuto collassamento.

Lo dico infine affacciandomi come ogni giorno da tanti anni, sul luogo emblematico dei Sassi di Matera: luogo della vergogna negli anni ’30, fatto suo come patrimonio dallo Stato – espropriato legalmente da una comunità che lo viveva – diventato improvvisamente luogo della bellezza, patrimonio di una nuova umanità, di uno stupore che ha nascosto i segni stessi di quella originale vergogna marchiata ancora sulla pelle degli anziani che vivono nei quartieri degli anni ’50.
Una traccia silentemente dolorosa di un passaggio che qui cercherò di esplorare.

Questi tempi che mi porto addosso, sono dopotutto tappe che riflettono il percorso di noi bloomers. Sono figlio di una generazione, quella degli anni ’30, che ha dato vita ad una delle riformulazioni occidentali più all’avanguardia sui patrimoni culturali, dove, alla legge del 1939 (Legge 1 giugno 1939, n.1089), erano soggette: «le cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, compresi: a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; b) le cose d’interesse numismatico; c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni aventi carattere di rarità e di pregio. Vi sono pure compresi le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico. Non sono soggette alla disciplina della presente legge le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni».

Alla fine dell’art.4 appariva la parola patrimonio – «Art. 4. I rappresentanti delle province, dei comuni, degli enti e degli istituti legalmente riconosciuti devono presentare l’elenco descrittivo delle cose indicate nell’art.1 di spettanza degli enti o istituti che essi rappresentano. I rappresentanti anzidetti hanno altresì l’obbligo di denunziare le cose non comprese nella prima elencazione e quelle che in seguito vengano ad aggiungersi per qualsiasi titolo al patrimonio dell’ente o istituto» – a ricordare che quanto lungamente (e rivoluzionariamente) elencato, era tale anche perché proprietà dello Stato nelle sue diverse ramificazioni istituzionali: all’incredibile capacità per l’epoca di riconoscere il valore misto di portatori attivi di memoria, corrispondeva, alla fine, un linguaggio fortemente burocratico/mascolino/proprietario, che ne affermava la suprema paternità.

Poco meno di 10 anni dopo l’evoluzione repubblicana del pensiero italiano, nel capolavoro della Costituzione, ha la capacità di condensare nell’art.9, in parole dinamicamente lapidarie, il senso del rapporto con il suo (rinnovato?) passato: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
Un patrimonio intimamente connesso a un’idea di sapere, una tutela che scaturisce dall’affermazione di una promozione.
(Intanto i Sassi vengono svuotati. La comunità che non sa e subisce, viene deportata in luoghi del volto nuovo della nascente Repubblica, proprio mentre vari atti internazionali sancivano la nascita del concetto di “beni culturali”).

L’articolo completo su roots§routes