SENZA TERRITORIO L’IMPATTO SOCIALE È UN BUCO NELL’ACQUA

Oltre al fin troppo conclamato rischio di green e social washing ne esiste un altro, invece molto sottovalutato: che gli ESG, soprattutto se si configureranno non semplicemente come uno standard certificatorio ma come un paradigma di sviluppo, generino crescenti disuguaglianze all’interno dell’economia per effetto di un mismatch di offerta in grande crescita che però non intercetta una domanda coerente. Ne parlano Filippo Addarii, Ceo di Plus Value, e Flaviano Zandonai, Open Innnovation manager di Cgm, su Vita.

Lo schema di gioco è ben conosciuto. Da una parte l’economia capitalistica che dichiara (e tenta) di riformarsi. Dall’altra il settore pubblico che (ri)mette mano ai sistemi di regolazione. E come terzo incomodo la società civile che verifica l’autenticità dell’intento riformatore del primo e sollecita la capacità di controllo del secondo. Solo che questa volta la partita non è come le altre. Ha l’aria di essere una finale. Un po’ per l’oggetto del contendere che è rappresentato dalla finanza ovvero dal fulcro del modello di sviluppo di cui si evidenziano realizzazioni e limiti sempre più evidenti. Un po’ per la modalità di autoregolazione legata a un set di criteri ambientali, sociali e di governance – in codice ESG – che dovrebbe fungere non solo da sistema di controllo sulla riduzione delle esternalità negative, ma piuttosto come misura della riconversione profonda di un settore che genera e gestisce una risorsa, quella finanziaria, cresciuta così tanto negli ultimi anni da soverchiare il valore dell’economia reale.

Gli ESG rappresentano quindi la frontiera dell’autoriforma della finanza mainstream. La loro origine non risiede nella sola finanza alternativa che pure è cresciuta negli ultimi anni sia come quota di mercato sia come capacità elaborativa rispetto alla misurazione delle sue performance. E non rappresenta neanche una sorta di evoluzione degli investimenti socialmente responsabili (SRI) affermatisi più per l’intento di limitare o di escludere settori dannosi per l’ambiente e la società (come ad esempio la produzione e il commercio di armi). Il campo di applicazione degli ESG è legato piuttosto alla nascita e affermazione dell’impact investing che opera nella complessa e sfidante posizione di segmento specialistico orientato a perseguire obiettivi positivi e duraturi di trasformazione sociale e, al tempo stesso, di attore del cambiamento per l’intera industry finanziaria. Un settore che appare più flessibile nell’intercettare due elementi che caratterizzano i mercati finanziari attuali ovvero la grande liquidità e il predominio, anche in termini di narrazione e cultura, del venture capital.

Da dove scaturisca questo tentativo di autoriforma non è difficile da immaginare, in particolare guardando all’evoluzione di breve periodo. Se è vero infatti che gli investimenti socialmente responsabili non rappresentano una novità in termini assoluti, è vero che dalla crisi del 2008 in avanti e con l’ultimo shock pandemico si sono resi evidenti i limiti del modello di sviluppo dominante anche agli occhi del principale vettore di tale modello e non solo alle sue controparti. Il fronte ambientale, in particolare, è rilevante perché evidenzia il rischio, più che concreto, di compromissione e distruzione definitiva di risorse – acqua, aria, terra – che per risultare ancora disponibili non possono essere più considerate come asset produttivi dai quali estrarre, massimizzare e concentrare un valore considerato inesauribile. Questa tendenza alla commodificazione delle risorse è visibile anche negli approcci green di tipo meramente riparativo – ad esempio l’utilizzo delle foreste russe da parte delle aziende energetiche per vendere carbon credit – e riguarda non solo l’ambiente, ma anche aspetti sempre più pervasivi e profondi dei comportamenti individuali e sociali modificando così il “codice” della natura umana a livello di preferenze e convenzioni. Si pone quindi un problema etico fondamentale perché forse per la prima volta dalla modernità in avanti la sfera della morale e quella della “coazione a produrre” sembrano convergere intorno a una sfida di sopravvivenza non più rinviabile.

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