LA MONTAGNA TRA SMART WORKING, SECONDE CASE E ALBERGHI ABBANDONATI

Nel suo report di primavera Legambiente affronta il tema di come sia cambiata la vita in montagna dopo la pandemia. Edifici fatiscenti e mercato immobiliare in ripresa offrono opportunità di rigenerazione. Preoccupa il consumo di suolo.  

La montagna non è più soltanto una meta turistica: la diffusione dello smart working l’ha resa un rifugio perfetto dove coniugare i doveri professionali con il contatto con la natura. È quanto rileva Legambiente nel suo dossier “Abitare la montagna nel post Covid”. Il documento, pubblicato ad aprile, parte dal censimento di 66 strutture fatiscenti e in disuso, diffuse lungo le montagne d’Italia, per dimostrare come la crescita del mercato immobiliare montano rappresenti un’occasione unica di rigenerazione. Ma emergono elementi che destano preoccupazione, come l’aumento del consumo di suolo.

Tra le strutture censite, alcuni casi simbolo sono stati inclusi in una cartina: in Trentino-Alto Adige, le caserme austro-ungariche nella piana delle Viote, sul Monte Bondone, sono un pregevole esempio dell’architettura militare del primo Novecento e dal 2008 completamente abbandonate; in Piemonte il complesso alberghiero di Viù nella frazione di Tornetti (Città metropolitana di Torino), la cui realizzazione, iniziata negli anni ‘80, è rimasta incompiuta; in Veneto l’hotel “Passo Tre Croci” a Cortina d’Ampezzo (Belluno) è stato dismesso, così come l’hotel-residence “4 camini” a Laceno (Avellino) in Campania o in Abruzzo il complesso alberghiero “Campo Nevea” a L’Aquila. Sono esempi di strutture che hanno pagato il prezzo del cambio di domanda turistica per assenza di neve, necessità di ingenti reinvestimenti di ammodernamento, mancati adeguamenti tecnici, scelte mal ponderate rispetto ai flussi turistici.

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