COLTIVARE COMUNITÀ, COLTIVARE DESIDERI

Letture Lente, lo spazio mensile di approfondimento ed indagine sulla Cultura intesa come settore di AgCult, lancia il dossier “Coltivare comunità”, curato da Flavia Barca, Rossano Pazzagli, Filippo Tantillo e Giovanni Teneggi.

L’obiettivo è quello di ragionare, nell’ambito dei processi di trasformazione dei territori, sul ruolo della cultura come possibile leva di ingaggio delle comunità, di attivazione di cittadinanza consapevole, come spazio di mobilitazione attraverso nuovi modelli di co-progettazione e nuove pratiche di coesione sociale.

È possibile proporre un contributo su questo tema (tra le 7.000 e le 10.000 battute) inviando una mail con curriculum ed abstract a contributi@agcult.it

Nel discorso pubblico, quando si parla di “comunità” si pensa a quel qualcosa che sopravvive o resiste ai processi di marginalizzazione che la società contemporanea crea al di fuori di certi ambiti sociali o territoriali, ad esempio nei piccoli paesi: è un’idea che fa direttamente riferimento a ciò che si perde, o che si è perso, nel passaggio alla modernità. È infatti certo che le comunità locali, intese come ambiti integri e circoscritti, nei quali le persone nascono, studiano, lavorano, vivono e muoiono, oggi in buona parte dell’Occidente non esistono più. Sono esplose in territori molto più vasti. Le persone che le abitano lo fanno spesso in maniera “ubiqua”, dividendosi fra una professione in città e una residenza in campagna, e percorrendo in macchina decine di chilometri al giorno per accompagnare i figli a scuola, andare a lavorare, fare la spesa nei centri urbani in pianura o nei poli di fondovalle.

Nonostante ciò, quello di ‘Comunità’ è un concetto che conserva un valore decisivo nella creazione dell’immaginario sociale, e fa sì che il suo uso, per chiunque si occupi di politiche pubbliche territoriali, sia irrinunciabile. La pandemia da Coronavirus del 2020 ha per altro mostrato che le comunità locali non solo non sono del tutto sparite, ma che si ricompongono, in forme spesso inedite, in situazioni di emergenza e che, come sempre accade di fronte ad aventi traumatici, hanno una capacità di risposta spesso molto più efficiente nel proteggere i soggetti deboli, nell’organizzare e mobilitare tutte le risorse locali per circoscrivere il pericolo, anticipando di gran lunga l’intervento dello Stato, producendo rinnovati quanto necessari sensi di appartenenza. Non si tratta solo dell’abusata quanto sfuggente “resilienza”, ma di qualcosa di più. Di una ricerca.

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